L’anima e il castigo

anima e castigo

“L’anima e il castigo” di Michele Caccamo ricama sulla storia medioevale per raccontare un disagio di ogni tempi: quello di chi viene escluso sulla base di un pregiudizio sociale

Caro Michele Caccamo, due parole sul tuo bel romanzo L’anima e il castigo (Castelvecchi), che ho letto da un po’, ma che mi è ancora chiaro in testa come se l’avessi appena concluso. Anzitutto una riflessione sul genere. Quando scrivi un “romanzo storico”, le possibilità di errore aumentano esponenzialmente, e più ti spingi indietro nel passato, più problemi ti trovi ad affrontare in termini di linguaggio, arredi descritti, architetture, abbigliamento, strumenti in uso, filosofia, cognizioni mediche, scientifiche ecc. Ecco perché provo una grande ammirazione verso quegli scrittori che dimostrano di saperlo fare.

L’anima e il castigo racconta poeticamente (si sente che prima di essere un narratore, tu sei un poeta, cioè hai dimestichezza con il linguaggio poetico), la vita di un uomo nato con una grave malformazione fisica – il piede caprino – che si credeva all’epoca portata dal Demonio, e per questo ripudiato dalla (nobile) famiglia di origine, e offerto “in dono a Dio”, cioè affidato ai monaci di un convento. Il romanzo è anzitutto una riflessione morale sulla “diversità” – almeno così l’ho letto – che dal Medioevo profondo rimbalza fino a noi, alla nostra intolleranza, ai nostri pregiudizi, ai nostri razzismi senza grande sforzo di immaginazione. Non c’è un solo momento durante la lettura del tuo libro, ambientato attorno all’anno 1000, lo ricordo, in un monastero benedettino, ispirato alla vita di Heram von Richenau, detto “lo Storpio” – non c’è un solo momento che leggendo ti viene fatto di domandarti: “Ma questo sarà vero… uhm fammi un po’ controllare!…”. Grazie al rigore nei riferimenti (la forma di un capitello, il nome di un certo medicamento, un dettaglio di vita monastica ecc.), non c’è un solo momento, dicevo, che non sei riuscito a suggerire l’idea di un tempo tanto remoto, senza peraltro caricare la rappresentazione da notizie didascaliche e erudite.

Insomma, la “sospensione dell’incredulità” si realizza e volentieri ci si abbandona alla narrazione. La scrittura riccamente metaforica, aforistica, poetica, appare particolarmente adatta a esprimere sentimenti/emozioni religiosi, ma è dotata quando serve anche di ritmo narrativo, perfino di suspense, per esempio quando il protagonista viene rapito da malvagi trafficanti di poveri “infelici” usati come mendicanti o peggio, passando per il fortunoso, rocambolesco ritorno al monastero, fino al definitivo rifiuto dell’Abate a “ordinarlo” al Presbiteriato, quindi a considerarlo “degno” al ministero sacerdotale a causa della sua malformazione. (Andrea Carraro)

Ho letto questo bellissimo romanzo tutto d’un fiato. A parte la storia, che è davvero avvincente, quella che mi ha colpito di più è la prosa poetica. Libro scritto magistralmente, costellato di simboli sacri. Lo rileggerò a breve. (Piera)

Ogni tanto accade che nella piattezza della descrizione o ripresa dei fatti, in ambito letterario o artistico, si affaccino autori, rari, con l’istinto di tentare nuove modalità comunicative, ragione in più per cui la lettura di questo libro lascia piacevolmente sconcertati e meno soli. La narrazione, benché liberamente basata sulla realtà storica, e benché narri fatti ben piantati nel reale, si svolge nella dimensione poetica dell’animo, nello sguardo ulteriore dello spirito, nella percezione di un reale oltre il reale che commuove e alimenta pulsioni di bellezza. Ermanno, il piccolo storpio protagonista, è un Essere superiore, non perché vince, ma perché dotato di quello sguardo sull’infinito che gli impedisce le bassezze quotidiane dell’umano, e la forza del libro sta anche nell’unicità di raccontare le turpitudini peggiori dell’uomo privato del sentimento, nella dimensione spirituale e poetica di Ermanno. Così mentre scorriamo una storia fra le infinite del mondo perdiamo la distinzione tra passato e presente tra noi e loro tra fisicità ed emozioni, percezioni, e nuove visioni possibili. Immergendoci nella storia reale, insieme ce ne sganciamo, diventando noi stessi l’incomprensione eterna che oggi come ieri prelude l’abbandono, e la tenerezza infinita nell’odore della mamma, scoprendo le fitte del gelo nella freddezza della perfezione, e la forza dell’essere ultimo, forza che non apparterrà mai ai primi, mentre ci scuoteremo di terrore e orrore nella morsa dello sfruttamento e del sadismo. Saremo la solitudine iniziale provata da Ermanno lasciato solo nel Monastero e la rinascita quando scoprirà l’amore fra quelle mura che lo proteggono, e ancora il tradimento delle mura stesse, diventeremo l’elogio puro della lentezza e sveleremo l’illusione del controllo e la pena insita nella convinzione di poter decidere. Non leggeremo cosa prova un bambino che viene occultato al mondo perché deforme, saremo quel bambino deforme, che è lo stesso autore, alla ricerca di se stesso proprio nella difformità che è probabilmente la parte più profonda e vera di ciascuno di noi. Alla fine della lettura resta nel cuore un germoglio magico, da annaffiare nella incessante richiesta di accettazione che ci riguarda tutti.  (Francesca Ricchi)

Una prosa squisitamente poetica.
Ed è raro, come accade in questo romanzo, che la poesia sia in perfetto equilibrio con le intenzioni della trama.
D’altronde appare chiaro fin dall’inizio (o almeno a me così sembra) che l’intento dell’autore, Michele Caccamo, sia quello di rendere paritetiche le tante, diverse, verità presenti al mondo.
Una scrittura elegante, magicamente rispettosa, al punto che è come se, in certi tratti, essa si scostasse e si levasse in piedi, alacre, per far spazio alla riflessione.
Ermanno, il protagonista del romanzo, è un oblato, un bambino deforme, con un piede caprino e con la gobba, rinchiuso suo malgrado in un convento. Un “diverso” ma di una diversità paradossale che arricchisce d’affinità e uguaglianza chiunque lo frequenti. Un’anima che viene segregata e che, come poche serrate nell’infinitamente piccolo, riesce a essere all’altezza delle piccole cose.
Il “fraticello” Ermanno è tra un San Francesco e un Amleto con una ponderatezza penitente scambiata per indolenza. Leggendo la sua storia si respira un’aria di attesa e lui appare come uno che sa aspettare, che, anzi, sembra nato proprio per questo, per attendere, perché Verità e Speranza si rivelano in realtà soltanto quando tornano.
È un’anima candida che evoca figure di spiriti, Un’anima che s’interroga, che pare vedere le domande come luoghi e le percorre come attraversando sentieri. Per cui pensare diventa esplorare col rischio di smarrirsi.
Un romanzo che ho trovato davvero interessante. Fatto di capitoli brevi, ma vasti di una sapienza verticale. Capitoli nei quali ogni frase è il verso di un’immagine o il bercio di un’immaginazione, con una natura coprotagonista, tutt’attorno, che parla essendo.
Il tema sembra essere l’incomunicabilità, ma poi domina la sensazione che nulla, in realtà, risulta più eloquente dell’incomunicabilità stessa. E che molti silenzi, spesso, non sono altro che lunghe frasi sfollate dalla prepotenza subdola di ingiusti castighi. (Sergio Saggese)

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