E non davvero a portata di mano, ma in nessun luogo ha scelto di rifugiare i verbi: per darci da piangere o da ridere, o ancora meglio la possibilità di escluderci da questa realtà; per arrivare fino ai tempi più lontani, inibiti all’accesso della comune immaginazione, quelli che lacerano le nostre lampade vitali, e anche premono per giungerci nelle costole, o in mezzo agli occhi, come fossero saette avventurose.
Ogni verso di quelle opere è una battaglia, data per l’indipendenza della parola. Non ho mai visto altra ricerca onesta e più coraggiosa, mai nulla che fosse così immortale, così intenso e profondamente laico.
Quelle opere non hanno niente a che vedere con i regolamenti della composizione testuale, perché Panella ha insanguinato il piano musicale di Battisti, lo ha reso adulto, per sua scelta incomprensibile, come si consente a una vera vena dell’avanguardia.
Battisti e Panella sono stati l’uva, il vino corrente, l’unico futuribile sovversivo: anche se per alcuni, del mercato discografico, erano dei cavalli morti, degli stravaganti con una presunzione intellettuale.
Le poverissime visioni degli addetti, all’impiego delle canzoni, volevano condizionarli, intralciarne l’evoluzione: mettere al posto del talento una quiete protetta, rendere Battisti un sereno anziano e costringere Panella a non infastidire i ritornelli per le serate a mare.
Ma loro due, che tendevano all’assoluto, hanno sequestrato la salute della canzone per cominciare in anticipo una nuova storia. L’uno ha scritto quaranta poesie l’altro ha composto quaranta sigilli d’Arte musicale.
Battisti, scegliendo l’ estro di Panella, ha voluto scacciare i fantasmi dalle bionde trecce, l’impolverata costruzione metrica e la regolarità tecnica di Mogol.
Non poteva continuare, era diventato un mestiere, un appuntamento solito con un ormai invecchiato giro melodico: Battisti non poteva starci, non ha mai servito nulla di altro che fosse oltre la patria del suo genio.
E non ha limitato la sua musica con i metodi elettronici, ne ha anzi usato le battute come fonte di battesimo per nuove armonie: dieci cento cambi di giro, e altrettanti refrain nascosti, come se in ogni tempo ritmico ci fosse una miniera.
Lui ha fatto declinare la canzone per poi riprenderla in una conversione incantevole.
Aveva deciso di avviarsi verso una nuova libertà.
E così abbiamo avuto la sposa occidentale, allontanando gli specchi opposti e per altri motivi, lo scenario, il don Giovanni, e cosa succederà alla ragazza, e l’apparenza (dell’anulare in bocca), e i ritorni, quasi sempre campati in aria. Tutti esattamente creati per far coincidere l’indipendenza espressiva con la bellezza musicale.
Quanta immensa complicità, tra i due, al di fuori dell’orecchio cantabile; a dismisura quanto talento al di fuori da ogni riparo abituale.
Panella sapeva di avere una venatura ostile: per grandezza poetica entrava e usciva dai misteri paralleli. E ne aveva felicità. Era la sua parte migliore molto lontana dalle canzoncine già scritte, negli anni passati, per sfuggire alla fame.
Battisti non è mai rimasto nell’angolo appartato del successo, come fan tutti, si è con decisione aperto alla sperimentazione. Nel suo prodigio creativo aveva scelto di non camminare tranquillo nel solito tappeto musicale, ma di rifilarsi in una piazza compositiva isolata, rischiosa e non misurabile: forse anche feroce, perché il silenzio sarebbe potuto cadere sul suo nome.
Mogol, dal canto suo, voleva sempre vincere: aveva costretto Battisti a essere un vulcano ordinato; aveva reso esauribile la sua creatività, gli aveva imposto la morte, lo aveva reso un vilissimo musicista.