C’è dell’acqua torbida, a Nicotera.

movimento

Non avevano messo i datteri nella testa del capretto, ma la sufficienza del piombo per un’intera famiglia: quella dei D’Agostino.

La ‘ndrangheta quando è spaventata fa così: si mette davanti alle nostre case e traccia solchi di sangue fin dentro al nostro grembo. Fa così quando pretende di ammutolire la ribellione.

E Antonio D’Agostino solo a nominarlo, già allora, creava un disturbo: scuro nervoso esattamente temibile. Gli hanno inviato cinque proiettili e una testa mozzata di capretto: un cliché che avrebbe seccato il sangue a chiunque.

Nicotera è talmente vicina agli aranceti incantati di Rosarno che durante la rivolta i bastoni degli immigrati hanno risuonato ovunque,  aprendo la coscienza di molti e colpendo il cuore di Arturo Lavorato e Felice D’Agostino: la ‘ndrangheta che sfrutta, la politica che mantiene la speculazione; e quegli uomini abbandonati senza angeli custodi, altri non fossero che i caporali. Nessun animo buono poteva stare in silenzio dinnanzi a tanta disumanità, bisognava intervenire e prima che arrivasse una vendemmia di sangue. Lo immaginavano, Arturo e Felice, già filmando la rabbia e la delusione di Franco Costabile. Oggi i nuovi poveri non sono solo tra gli immigrati. Loro due volevano salvare tutta la gente inerme e succube: Arturo, alla fine, ha scelto i “negri” tra gli aranceti, e al loro fianco ha lanciato il grido di allarme, contro la ‘ndrangheta contro il caporalato contro lo sfruttamento.

E ancora a Nicotera, in un giorno qualunque, hanno fatto un salto all’indietro aprendo il rubinetto dell’acqua: gialla come se tutta la ruggine del pianeta si fosse infilata nelle condutture sotto le case, come se la morte si fosse sciolta nelle viscere del paese. Era imbevibile, qualcuno aveva sommerso i pozzi di tossico. E fu così per ore, giorni, mesi.

Era necessaria una protesta, una reazione popolare; prima che il fuoco della morte si avventasse sulla cittadinanza. Un movimento, civico e civile, per il diritto alla vita: lo disse Lavorato, lo disse D’Agostino, lo disse Toni Capua, lo dissero centinaia di nicoteresi. Si riunirono. 14 Luglio, il nome scelto.

Quella è una comunità irremovibile, sarebbe stata all’erta: senza alcuna possibilità di cedimento, senza alcuna trattativa. I nicoteresi chiedevano un diritto, non un privilegio.

I cuori dei cortei mettevano sotto pressione la Sorical: l’attenzione delle autorità era puntata sulla gestione delle falde acquifere.

Nicotera era diventata un pugno, il diritto all’acqua era la via maestra. E ognuno aveva giurato che non avrebbe ceduto, neanche un millimetro, alle impaccature di giustificazione, create dalla Società di gestione dei pozzi comunali.

E c’era, tra gli altri, anche la cronista Dell’Acqua: aveva prontamente indossato l’elmetto e si era tuffata per la pesca del veleno. E ne parlava. Eccome se ne parlava.

Il Movimento 14 Luglio era forte. Toni Capua raccordava gli incontri, coordinava le iniziative a sorpresa.

Fu forse prima di qualche tuffo che alla Dell’Acqua venne fatto perdere l’equilibrio: e smise l’elmetto e smise la lotta. E pensò che in fondo il giallo dell’acqua non fosse poi così distante dalla colonia chanel, che ci poteva stare. Che si poteva smettere di parlarne, che il Movimento 14 Luglio poteva chiudere i battenti.

La Sorical inquieta aspettava.

L’intrepida cronista iniziò a buttare alla rinfusa articoli sconnessi, intenzionata a spostare l’asse del mirino. Aveva ancora le pale dell’elicottero sopra la testa, viste qualche giorno prima sul social e poi fatte scandalo, e poi ancora ingiusto merito. Aveva negli occhi un disegno ambizioso, seppur lontano dalla sua gente. E scrisse di tutto, e ogni storia era agevole, perché favorita da un quotidiano disattento.

La Sorical inquieta aspettava.

Il Movimento 14 Luglio non aveva intenzione di soccombere, tanto che chiese di poter replicare. E l’intrepida cronista, spalle forti, disse di no. Che era una limitazione, un bavaglio alla sua libertà. Ed emise strilli di allarme; e si dichiarò perseguitata, si dichiarò dell’antimafia.

E ci sono sempre i giornalai giornalieri cercatori della disonestà calabrese. E così ci hanno creduto, e così non hanno visto oltre.

La Sorical inquieta ancora aspettava.

Serviva utilizzare la ‘ndrangheta: è pur sempre un marchio buono e, a chi ha dimestichezza con la notizia, non sarebbe stato difficile farla passare per reale: la ‘ndrangheta, che vuole tappare le bocche. Ma non quella vera, che si preoccupava dei D’Agostino, di Lavorato, e dei cittadini di Nicotera che non avevano paura, serviva il suo fantasma da agitare sotto il cielo dell’antimafia. Fu così che l’intrepida cronista, spalle forti, divenne un caso. Con la complicità del disattento quotidiano, trasformò, in petizione (da presentare dove come a chi?) una semplice richiesta  di diritto di replica a un suo ennesimo impreciso articolo. Divenne combattente e soldatessa d’inchieste, in realtà mai avvenute, contro lo strapotere mafioso, e chi le stava contro un complice colluso. Divenne così martire, vittima di quei “cattivi” che chiedevano soltanto di poter ribattere. E la stampa nazionale senza investigare ha accettato l’inganno, e ha fatto grancassa.

E la Sorical, da qualche giorno, ha creduto di non dovere più aspettare.

E l’acqua ancora rimane imbevibile, e nei pozzi c’è ancora il tossico.

Il Movimento 14 luglio, è notizia di ieri, ha occupato il Municipio. I nicoteresi continuano la lotta, nonostante il fango della stampa nazionale.

La Costa degli dei è orlata di neve. Chissà mai quel candore non riesca a ripulire le condutture dell’acqua e qualche coscienza; chissà mai non riesca a lavare il rischioso peccato della cupidigia, o altre recenti dannose bramosie.

Dio, io vorrei. (Proposte per il nuovo anno).

sorrow-1228329_960_720

Vorrei raccogliere i frammenti dei miei ossicini portati al rogo, per poi far tacere per sempre chi non si è preso cura di me.

Vorrei si perdessero le siringhe che ancora mi gonfiano di dolore.

Vorrei si perdessero, al primo dispiacere, i cuori freddi e torbidi che mi hanno disconosciuto.

Vorrei che l’uomo buono che sono non venisse più abusato.

Vorrei che finalmente tu Dio mi dicessi quando potrò aprire ai venti le mie mani, la pulizia delle mie mani, per far cadere questa condanna al macello. Quando potrò volare sui terrazzi come le colombe, come la giovinezza salva e rifugiata nel seno delle tue donne.

Io non so più come vestire il mio corpo; come far portare via la mia croce, come scacciare i fanatici d’assalto dalla mia sensibilità. Non so più come stare dentro al bene segreto della tua Bellezza: mi hanno rubato e quasi non so più come tornare da te.

Dio, mi hai lasciato sotto il tiro di chiunque e non ti sei mai girato verso i miei occhi, schiacciati dal troppo nero nella terra. Tu non mi hai voluto liberare e hai permesso che mi ingarbugliassero. Hai permesso che io avessi il ventre pieno di uomini sordi e ciechi, di mormoratori di quell’ira folle che ho nel destino. Hai permesso si passassero da una mano all’altra la mia solitudine e la mia amarezza, che mi strappassero il cuore spacciandolo per cartaccia, che mostrassero la mia anima in pubblico come fosse una bestia.

No, non è merito tuo se io sono sopravvissuto a tutto.

Troppo a lungo mi hai tenuto con le braccia carbonizzate; con le pupille strane, che avevano la loro tinta migliore nel fango. Troppo a lungo mi hai sottratto le lacrime dell’amore, mi hai voluto martire dell’assenza.  Troppo a lungo mi hai lasciato recitare i versi del suicidio, come volessi insegnarmi a morire: e le pompe del cielo avevano un inno dolce, veramente le mie ferite una garza medicale. E io avrei voluto chiudere gli occhi, con la dolcezza che hanno gli uccelli.

Dio, io vorrei che prima di allontanare l’anno vecchio preparassi un tuono di richiamo, un cuscino contro il male che subisco. Perché qui, ricordalo, non hai lasciato nessun campanello per la ricordanza, nessun pastore benevolo e paziente; qui hai lasciato un esercito di spiriti maligni e a mille a mille le idee squallide. Non hai neanche censurato gli umani che mi hanno addentato le palle, che hanno cercato il gusto nel mio petto dissanguato. Quegli umani che hanno messo sulla mia testa il supplizio, e nei miei pensieri la morte.

Dio, vorrei che prima di allontanare l’anno vecchio mi facessi diventare uno di voi, asciutto e incolore, lontano da questo brutto imbroglio che è diventata la mia vita. Che guarissi il mio cuore malato, che facessi partire un enfatico fracasso in tutto l’universo per dichiararmi salvo.

Vorrei che tenessi il mio cranio aperto per scaricare la ragione nera del dovere, e lo riempissi di aria e ci mettessi dentro un neonato da cullare.

Vorrei che tu, Dio, mi trovassi un rifugio nella tua Opera, nella letteratura dei tuoi Angeli.

Vorrei che non mi lasciassi qui come sono adesso: un uomo al di fuori dal sole, un fiore sotto a una pietra, un perdente afflitto dalla sorte, un morto sì un morto.

Dio, io vorrei con il nuovo anno rinascere, guardare lo stradone del tuo cielo e vedere ammutolire la malasorte. Vorrei finissero davvero i miei anni a vuoto e tu levassi gli uomini infedeli dal mio cospetto. Vorrei che con minuscoli omicidi tu eliminassi le anime cattive.

Dio, vorrei che nel nuovo anno al mio capo opposto ci fossi tu, che non mi sei rivale.

Poi vorrei cadere in un volo di farfalle, e diventare vivo sul serio; essere scelto dall’amore, esserne benedetto. Vorrei che tu mi facessi rialzare la testa. Vorrei per la mia Gioia, rivedere l’ideale lei di nuovo tornare: bianchissima e forte come lo era nel sogno.

Valentino Alfano, il favolatore di Mina

alfano

I laghi sembra partoriscano soltanto nebbia e zanzare, cementino il paesaggio: non si vede né un’onda né un moto impetuoso. Hanno la forma chiusa in una bolla, come volessero tenere fuori le disgrazie del mondo, le ceneri dei nostri corpi. Come volessero mostrare il loro tentativo di splendore, messo in perfetto equilibrio. E così, nel loro cielo, anche le stelle sembra non abbiano trascendenza, anelli eterni.

Ma i laghi, si sa, sono la metafora dell’inquietudine, i banditori dell’animo umano; diventano terra e sangue, distruzione e amore, diventano vasi per ogni fiore diverso. Se ne sarà accorto Valentino Alfano che, sentendo la forza fino alla bocca e i pensieri nelle mani, aveva capito quale sarebbe stato il suo mondo di gioia.

Lui, profugo di Sicilia ed ora operaio al Lido di Lugano, riempiva le assi che colorava di note. Cimava le siepi a piccoli nidi, come fossero grembi per le sue parole. Lui, operaio al Lido di Lugano era diventato un servitore felice dell’incanto.

Lui, era arrivato fino alla ruota del cielo con un solo tono di voce. Nel punto più alto, dove non esiste né un tetto né una porta, dove tutto si espande nell’aria infinita fino a tornare alle orecchie umane.

Valentino faceva sentire la sua voce, la sua disobbedienza alla condizione umana, la sua ribellione: come avesse deciso di non rassegnarsi al suo destino e di uscire da quel limo lagunare di condanna.

Il lido di Lugano a volte è anche generoso, e l’acqua sembra ritorni per qualche attenzione. Le parole di Valentino facevano eco alla risacca del lago; armoniche e sonore già cantavano, avevano nel cuore la chiave della Bellezza, arrivavano alla vita.

Anche Massimiliano vi si era smarrito, in quei versi fondamentalmente perfetti. Volle capire quell’alfabeto assolutamente intimo: avrebbe preso un pianoforte un complesso di archi o i quattro elementi dell’esistenza per risalire verso quelle frequenze vocali.  In un attimo lo cercò, con la delicatezza di un’energia morbida: proponiamo a Mina di cantarti?

Valentino mandò un grido, finalmente liberato, nel sogno. Non sarebbe più passato attraverso i ladri del suo tempo, nessuno avrebbe più percosso le sue giornate con ordini di lavoro.

Vennero per anni le sue stesse storie, e la voce di Mina in un azzurro senza pari a cantarle come un’amica, una complice che tutto sapeva.

Lui, l’operaio del lido di Lugano, o come mi piace dirlo Valentino Alfano, il favolatore di Mina.

-Valentino Alfano è cantautore.

Ha scritto finora per Mina 14 canzoni.

Lavora come operaio al Lido di Lugano.

È natale..già cantata da Mina è stata anche interpretata da Irene Grandi

Devi dirmi di si..sempre cover di Mina da Roberta Bonanno.

Due anni fa ha inciso il suo primo cd intitolato “2foto” prodotto da Lorenzo Vanini –

I piloti delle stragi (A Nizza, a Berlino. O ad Aleppo).

terror-155754_960_720

I cristiani hanno i piedi nella palude, e ogni suolo è davvero poco. C’è una nuova morte che li inchioda alla croce, che anche le campane del mondo hanno il nastro sonoro spaventato. Li fanno sprizzare di rosso ardente con una botta alla schiena, li fanno imbrattare di sangue: ogni loro vita è diventata moribonda e se ne va senza che vi sia stata dichiarata da nessuna tromba la guerra.

Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam.*

I cristiani hanno le mani ferme nei rosari; perché Gesù è stato un grammatico dell’Amore. Quale che fosse la discendenza, quale la vittoria della Patrie, ha asperso ogni ragione di onniveggenza. Se solo lo avessero capito, ci avrebbero aiutato a costruire giostre di bellezza.

Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam.

I musulmani, oggi, hanno gli occhi nel fango, lontani dal bel fiore d’oro di Maometto. Hanno i signori infernali tra di loro, e Dio ha molti nomi e le mani degli omicidi. E le figlie del cielo sono puttane e quelle della terra un compenso. E oggi la luce da Oriente viene da un pozzo di bombe, dalla cintura che divora.

Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam.

I musulmani fossero api lascerebbero il miele agli assassini, la condanna a quei cattivi spiriti che li stanno portando via dal Profeta. Potessero uccidere marcherebbero di infedeltà, con una bozza in mezzo al petto, gli uomini malvagi e li manderebbero alla morte.

Per un musulmano la vita è sacra.

Per un cristiano la vita è sacra.

Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam, e di quegli uomini smarriti che passano dalla porta del peccato; che hanno trovato nel patrimonio la loro convenienza al massacro. Abbi pietà della loro inconsapevolezza, per la loro offesa al tuo Messaggero. Abbi pietà quando arriveranno sporchi di sangue, e così lontani dal tuo seno.

Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam, e di chi non ha saputo pregarti e ha pensato fosse più facile obbedire a un comando omicida; abbi pietà di chi non ha fatto in tempo a vedere il sogghigno dell’economia occidentale.

* Abbi pietà di me, o Dio, per la tua grande misericordia

 

Gesù, non nascere

demolition-1864860_960_720

Gesù, non nascere. Non ci troveresti.

Le ali di Lucifero hanno colmato di buio la nostra terra; hanno avvilito il cielo e sparso da ponente a levante nuvole di piombo e sangue; hanno messo a morire le anime dell’infanzia e chiuso con foglie di cicuta le bocche, che avevi pensato buone per le rivolte. Non ci troveresti, nei sentieri dei pastori, nelle larghe ruote attorno al tuo Verbo, negli angoli casti della tua volontà.

Gesù, non nascere. Non ci capiresti.

Le nostre lingue sono ormai gonfie di veleni, di parole convulse e inservibili. Gli uomini sono diventati i mistici di Satana, e proclamano la morte; hanno strozzato il canto del gallo, e la luce sin dall’alba. Non ci capiresti. Sotto miliardi di cupole d’oro o a far da sentinelle a sepolcri di cemento; e a non toccare l’acqua che hai chiamato tra gli Elementi, per lavare le coscienze e le sbrecciature negli animi.

Gesù non nascere. Non ci perdoneresti.

Le nostre mani hanno lacerazioni immonde, e costruiscono troni di creta e guidano le bombe e strangolano le libertà. Le nostre mani hanno messo palle di lenzuola nei denti e poi sparato alla testa del fratello; hanno, dovresti saperlo, le unghie a taglio per cavare gli occhi e scavare basi di frontiera e spaccare il petto e strappare il cuore e far saltare dalle pozzanghere i brandelli del morto.

Gesù non nascere. Non ci ameresti.

Siamo conservati qui sotto nel più terribile dei modi, sotto le lame delle ostilità e senza la memoria del tuo testamento d’Amore. Qui è ovunque ineguaglianza e guerra e ogni fuoco scuote la fine dell’umanità. Noi siamo già arresi e la Fede indietreggia, e la morte è una torre d’acciaio sulle nostre vite. Noi siamo messi via come un niente, come se l’anima l’avesse potuto portare via il vento.

Gesù, io non riesco più a respirare e stringo le gambe pieno di paura. E dicono io abbia una faccia triste quanto un camposanto, e la pelle bianca come mi fosse stata infilata dai fantasmi. Io avrei voluto essere una rosa, la felicità per tutti gli occhi; ma non riesco a respirare e mi gonfio come una rana vecchia. Non so quanti cattivi innamorati della Vita ho attorno, e soffro.

Gesù non nascere. Gli uomini odiano, e ti odiano.

Dio è un’interconnessione operosa (o la supplica di un Cristiano)

hospice-1793998_960_720

Fratello mio, ciò che è tuo mi appartiene, perché proviene dalla pianta dell’unisono; perché anche io l’ho, nel mio futuro probabile, la tua matrice divina.

Tu senza toccarmi sei le mie mani e la mia pelle. Tu sei il mio bacio, la mia carne lacerata,  sei il mio numero successivo, la radice o la fionda di partenza. Tu sei quella fascia nell’orizzonte che intende custodirmi, per abbraccio di fratellanza.

Tu sei il dolore dissolto, infine la lacrima tremante che mi commuove.

E quanto vorrei che rimanessimo innocenti e preservati dall’inferno: Dio ci ha dato delle condizioni stupende per la Vita, ma oggi sulla terra c’è un massacro di colpi per raggirare l’Insegnamento; per farsi bastare l’ingegno umano.

Dovremmo sgombrare, tutti quanti, e presentarci con il senno bruciato dinnanzi alla Luce del Tempo.

Noi dovremmo, tra le lune messe ai poli, allungare le braccia ed essere le croci del risveglio; dovremmo essere a uno a uno anime di raccoglimento, nelle colonie degli universi.

Noi siamo i pensieri irripetuti di Dio, e stiamo in questo mondo come fossimo delle farfalle disseccate. E aspettiamo che la morte riesca a decapitarci.

Noi stiamo come fossimo corpi sanguinanti e pieni di gas, senza sapere che siamo l’eternità bloccata da Dio; che siamo una moltiplicazione di noi stessi, e la lingua perfetta dell’Amore. Che siamo la parte spoglia e bianca della Natura.

Noi siamo eccellenti e dai vestimenti puri, la rinomanza della Bellezza.

Ma viviamo come cacciatori di montagna, e lasciamo impronte giganti dentro ai cuori. Non sappiamo riconoscere i terreni dei nostri fratelli, e facciamo cadere lenzuola di cera sui loro volti. Non sappiamo aprirci al profumo dello spirito, a quel campo grande e verde che ci riunisce.

È un anello celeste la vita, un melo senza peccato; non fosse che l’abbiamo inchiodata nella colpa, nel cipresso nero di ogni crimine, sarebbe l’eucarestia.

Facciamo allora saltare dalle nostre schiene la rogna della disumanità, per esserne immuni. Facciamo perdere le nostre tracce profane, e tutti i vestiti di lutto che ci sono stati imposti dalla modernità.

Diventiamo figli della Gioia, invocando tutti d’accordo la comunione. Diventiamo aurore di braci e insieme Magi con nelle mani la Vita e la Luce.

Entriamo così nel vuoto del cosmo, e avremo dentro alle anime l’ossigeno che esiste solo nella bocca di Dio.

Il seno della Madonna

seno

Siamo impauriti, come fossimo degli uccelli in mezzo alla neve. E non riusciamo a guardare né verso la tenebra né verso la luce. E già vivendo pensiamo a quando metteremo i fiori e i calici d’argento nello scrigno dei nostri resti.

E allora esistiamo come non ci fossero più gioie per noi, e aspettiamo di ricevere le ostie sante, fossero in un santo monastero.

Ci siamo messi così lontani dalla nascita da non essere riconosciuti. Siamo stati annientati dalla nostra stessa fame; noi siamo ormai avanzi, fossili sotterrati.

Ed è inutile serrare le nostre porte di paglia contro il demonio.

Siamo diventati un pasto, o realmente un nulla.

Dovremmo avvicinarci all’altare, lasciando fuori le cinghie umane, rimanendo nudi nella vera orfanità. E non guardare le Chiese buie, coperte dalla bruma dell’incenso, come se tutto fosse docile e definito.

Dovremmo andare verso l’uomo di Maria: lei che è sposa e stella, la miniera duplicata in ogni cuore, che sa come tenere nel suo petto il nostro orientamento.

Dovremmo diventare i barellieri dell’Amore. Per le insanabili debolezze dell’uomo essere il richiamo unico per la salvezza.

Dovremmo, da questo lato del cielo, farci testimoni della purezza.

Ma siamo dei ragni, nella nostra insanabile pochezza succhiamo il seno della Madonna, come prima il costato di Cristo, credendo di trovarci le sorgenti miracolose per la nostra immortalità.

Quando capiremo che la Bellezza di Maria offusca gli occhi e la vita che osserviamo con la rabbia, riusciremo a tornare bambini nella culla e vivremo in torri piene di luci. E avremo pupille di cristallo e saremo ciechi e saggi, finalmente liberi da ogni misura umana. E saremo defunti e passeremo in un attimo, come dei tori nella mischia, nella risorgenza.

Non staremo più infermi con lo sguardo in basso, verso quelle angosce profonde che prendono facilmente vita.

Saremo Angeli e Fratelli e avremo nelle labbra la Grazia e l’Armonia.

La Madonna ha la lingua dei cherubini, e  un fazzoletto di versi romantici. Ha la rosa vergine tra le dita, il fiore più bello il figlio dell’eternità.

La Madonna ha per noi una capanna di gigli e le ore dei vulcani, ha una cava azzurra e la fioritura del cedro. Ha il grembo nella mano, come il nostro sogno, e la pace in un secondo.

E gli bucherei a sassate la testa (per affiliare la Calabria all’onore)

sassi-cavalcavia

Ecco, ve li offro i miei prigionieri della tristezza: quegli uomini comuni che rimangono pazienti in attesa del Paradiso, o dell’Inferno che sia.

Da questa parte della terra la luna ha un lavoro consueto: cade in mezzo alla notte aprendosi chiara e straziante, come volesse mettere un gioiello, un giglio per l’eterno nei paesi; come volesse dare la parola alle strade.

C’è anche qualcuno che pigramente aspetta cada l’istante dell’estasi, o che la libertà diventi definitivamente legale.

Eccole, in Calabria, le ore dilette dai sogni. E allora tutto ha il senso della risurrezione, delle cravatte rosse come sete lucenti nella pena. E allora tutto riprende la pienezza dell’assenza, l’ignoto splendore della solitudine. Allora tutto ha il passo immortale di quegli orologi che sanno che nulla è mai per poco.

È qui che la maledizione vive: negli occhi che sanguinano ogni giorno senza conoscerne il motivo; nella creazione, che al massimo è nel sicuro ovile del terrore.

E non ci si meraviglia se la morte in agguato già copre fino alle ginocchia; se la malandrineria ci riempie di spilli bianchi, di bandierine da gran pavese, come segno di conquista. Non ci si meraviglia se nella bocca abbiamo gli scheletri del passato sociale e nel petto un’incudine di ferro che toglie il fiato a ogni protesta.

E noi, per non urlare, mordiamo le vene nei pugni, la lingua, mordiamo anche le scarpe.

Saremmo la massa vincente, solo avessimo al fianco la volontà politica e il sostegno militare. Loro sono la parte minore della comunità, ma ci opprimono con la prepotenza: con i loro coltelli da macello nascosti, con le loro armi da fuoco usate alle spalle. Sono sbruffoni e vili, impestati dall’ignoranza.

Loro sono cuori freddi. Le loro donne hanno seni durissimi, che non esitano a strofinare nel piombo. E i loro figli non sanno giocare a palla.

Loro hanno nel pensiero solamente spine e croci, cannoni di arroganza e un rimbombo in testa fatto di ferocia. Non hanno un sentimento da mettere in festa, ma denti e lame e pistole; non hanno nessuna coscienza, e anche a cercarne una traccia la troveremmo affogata nel sangue. Loro non hanno onore; perché non hanno alcuna forza al di fuori dai loro fucili.

Io vorrei mettere un chiasso popolare dentro alle loro anime; vorrei mettere un tamburo e l’Amore della mia gente nella loro vita. Vorrei entrare nelle loro pance con una bomba nelle mani: farli saltare come le rane, farli esplodere avendoli a bersaglio.

Vorrei metterli a ciuffo sopra alla cima della libertà, ridicoli e morti.

Io li vorrei uno per volta davanti, gli ‘ndranghetisti, per arrampicarmi sulle loro corna e bucargli la testa a sassate.

Io vorrei poterli vedere piangere davanti a se stessi morti; vorrei vederli in agonia toccati al petto, con il viola sulle labbra, con lo sguardo supplicante all’ingresso della porta dell’oltretomba.

Vorrei vederli ricevere in bocca l’ostia dovuta ai moribondi.

Vorrei vederli tremanti davanti alla condanna solenne di Dio.

Te saluto Milano

public-676019_960_720

Già quando si arriva si cerca di mettere i piedi sull’onda, per poi improvvisare un’andatura possente: come non fossero nulla le spine nostalgiche della memoria.

Già quando si arriva sembra che ogni palazzo sia una rosa, ogni piazza un largo di luce. E i navigli un accesso immediato verso il mare.

Ma già quando si arriva le pupille oscurano il bianco sfavillante delle zagare, per poi dare il passo al grigio di un’aria morta: a volte sembra anche a delle lune nere.

E in mezzo a tanti cuori guasti non si trova nessuno che voglia la libertà di essere infiacchito: come fosse sacra l’accelerazione. Nessuno che, in questo infinito campo di deportati, voglia scattare in piedi.

Sembra che ovunque vi sia una coltivazione aperta di anime tristi, di quelle definite irregolari nell’universo.

Per rimanere fuori dalla scia bisognerebbe stare attenti a non ripetere l’abitudine, a non agevolare la tenaglia del consumo, a non oliare la meccanica del pane. A credere in ciò che non è vero.

Ma già quando si arriva si inciampa nelle ombre dei miserabili, che preparano le mani e ci tengono d’occhio. E poi ci scordano e dormono, ovunque. E potessimo scoprirli non troveremmo i nostri stessi pensieri oscuri.

Qui tornano a ripetersi i figli di nessuno. E non ci sono mammelle solidali, portatrici di succhi di limoni e cedro, di acqua d’amore. E le facce diventano verdi e dopo grigie e dopo pallide, e anche la lingua diventa nuvolosa.

Già quando si arriva si capisce che la rilucenza non è nelle stelle, che i fanali hanno la cima illuminata e un manto di paura. Si capisce che questa è una civiltà immatura, per nulla profetica: con i nervi saldati nel metallo, con il coraggio inchiodato ai muri, e la vita, la vita, vietata.

Già quando si arriva il manometro segna il tuo livello, la tua utilità. E c’è la giostra del toro accesso fiammante che ti fa saltare in aria; che ti mette in opera e non per un affanno sportivo. La resa è il battito o la sepoltura.

Qui c’è il tempo del design, così lontano dal richiamo della terra scossa e dagli ambasciatori del mediterraneo. Qui non c’è uno sguardo acutissimo che poi ti sappia soccorrere.

Già da quando si arriva si guarda la cappa del cielo messa al rovescio: come se in quell’alto si potesse entrare dentro a una buca. E tu senti di avere freddo, lì sotto.

E poi c’è il fischio delle sirene che sale, che assale. E tu scappi. E tu pensavi di poter essere un giglio.

Milano è una madre illegittima che non dimentica di farti assaporare l’amaro del mondo, è un’arena che hai nella gola,  un’incudine che ti schiaccia.

Già quando si arriva, qui, non c’è nessuno che voglia battere le mani, che voglia diventare una colomba.

Zucconi, l’anti risorgimentale*

vittorio_zucconi

E Zucconi ci ha voluti schiaffeggiare, per incapacità manifesta.

Dall’alto della sua comoda postazione, di uomo favorito dalla sorte, ci ha voluti accusare di inabilità intellettiva.

Io credo che a volte servirebbero delle fessure di areazione, se non altro per nettare i pensieri sporchi. Se poi ci si ritrova di fronte a un uomo con la mente annodata nei preconcetti allora servono degli squarci.

Ma non è difficile che a Zucconi sia rimasta in testa la nota teoria democristiana che il popolo del Sud vada mantenuto nella sudditanza: così, per ricordarlo, nella sua famiglia la democrazia cristiana era di casa, anzi di seggio.

E io me lo figuro, l’inventore degli scoop falsi, mentre, dai monitor supremi, ci guardava immobile con i suoi occhi d’oro, uno per uno in fila verso le urne; e ci sentiva tutti maligni, simil bestie. E ci avrebbe volentieri tolto la tessera elettorale dalla tasca, come ai bambini la fionda.

Tanto lui lo sa che siamo giocondi e infantili; che non abbiamo senso dello Stato, che siamo tutti abilitati alla pratica criminale. E che siamo abituati a mangiarci tra di noi, che siamo creature rasenti l’inferno. E che teniamo le mani in tasca per non perdere la pistola.

E Zucconi lo sa che abbiamo le fruste d’acciaio, per le nostri mogli e i nostri figli: affinché non si permettano decisioni diverse.

Lui, che è un monumento di marmo, un mito, lo sa quanto siano deboli le nostre coscienze.

E io me lo figuro, dal suo trono di gloria e gioia, mentre gode per la povertà che ci stermina: a causa delle scelleratezze del suo attuale Capo. Me lo figuro tenere alte le bombole d’ossigeno mentre anneghiamo per cause di abbandono.

Per lui sarebbe bello ci fossero per noi al Sud le culle imbottite di acidi e veleni, ci fossero i randelli alle cintole delle guardie nazionali, del nord.

È un assassino d’anime, Zucconi. Un affare disumano e deprimente. E lo è per formazione scolastica, per supposta supremazia culturale. Oscilla con un ritmo costante nel razzismo della peggiore borghesia; dalla sua casa a colori giudica chi come noi ha sete e fame e necessità. Giudica chi come noi, per una volta libero, si esprime contro.

E si stupisce se protestiamo, decisamente stanchi.

Si stupisce perché si spaventa che da qui possa, Dio lo voglia, nascere il vero Risorgimento.

*In riferimento alle dichiarazioni di Vittorio Zucconi, sull’incapacità del popolo del Sud a esprimere il proprio voto