La sera che Gaio Chiocchio non pianse, neanche per il dolore.

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Ha camminato la sua vita a culo indietro, come volesse tornare verso l’origine: e infilarsi di nuovo nelle acque della pancia, nel guscio dorato della protezione.

Gaio Chiocchio aspettava la sera, per nascere.

A quanti gli dicevano “torna a casa” ripeteva che non dovevano considerare un capriccio la sua assenza, perché lui era adatto per i baci del vento, e che nella notte recitava le preghiere contro il declino della Bellezza. Ma anche che anticipava il ritardo della nostra sensibilità, con scialuppe di vino a volte lanciate nel suo Tevere. Sotto i ponti.

Gaio confidava nelle stelle, in quella luce brillante che ammattiva ogni male. E sognava di avere una fune e polveri d’Amore: perché noi siamo piccoli, e nelle reti nere, miseri fino all’osso; assolutamente inutili all’architettura del Creato.

Gaio aveva scelto di non avere filtri, di non stare sotto l’occhio maggiore della società. Come un uccello o una gonna, per diverse altezze liberi, si sollevava in un balzo a rimproverare la nostra ubbidienza, la nostra cattivissima volontà: che è un ingresso nel niente, una  caduta per come si capisce mortale.

La sua anima è stata sempre in pericolo: legata ai sassi, agli spigoli dei marciapiedi, alla vertigine alcolica, che sapevano renderlo preda.

Non ci stava chiuso in casa, perché la vita lo guardava dalle porte. E i suoi occhi, zuppi di pianto, frenavano il talento dei suoi pensieri che volevano fuggire verso una gioia senza pari.

Gaio era un filo sottile, un fuso, in mezzo ai cazzotti che dava la nottata; era un vergine. Ma non immaginava ancora che si sarebbe infranto, senza neanche un ultimo vocabolo in bocca.

Gaio, richiamava tutti i sentieri della parola; scriveva versi come ghirlande, come fantasie tratte dai lampioni o dagli alberi. Ondeggiava per le strade come fosse un capriccio di mare; era il messaggero astuto della libertà. Meravigliosamente infantile. E si imbottiva le tasche con bottiglie di salvezza; teneva le dita unite davanti al petto per paura gli strappassero il cuore. Stava a buona ragione muto. Con tutti.

Gaio scriveva e ordinava le parole, in maniera che nessuno le potesse contaminare: seminava fiori per misurare la bontà della terra.

Ci è anche passato dalla piazza santa: come fosse il proprietario dell’Angelus, quella domenica del ’96. Si stava preparando alla morte: ed ha letto, lì, le preghiere cristiane, attraverso la terra e l’inferno. E aveva nelle mani una lamiera affilata, che anche la madonna ha tremato. E aveva già chiuso il suo conto, e l’espiazione della vita.

Gaio è stato un Angelo, un fuscello e un’aquila enorme.

La lingua di Dio gli aveva sussurrato alle spalle quale fosse la sua sorte. E lui l’ha ascoltata, nella sua agonia dolce e serena: perché la sua reggia era stata ricamata nella Poesia e nella malinconia; nella voglia strampalata di finire perduto nello stordimento.

Quale piccola tenerezza aveva mentre passava a una a una le osterie, mentre con un sorriso di sprezzo ordinava un mezzo rosso. Quale leggero piacere aveva nel sentirsi servo dei canti d’Amore dell’umanità.

Gaio ha vissuto in un inseguimento, nelle ali delle colombelle purissime. Nel panico che qualcuno lo svegliasse.

Quella sera finale è inciampato, e aveva il sangue alle tempie, e un cane che lo leccava. E il silenzio accanto.

Gaio non credo pianse, neanche per il dolore.

 

Pubblicato da michele caccamo

Poeta e scrittore contemporaneo, per fortuna ancora vivente

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